L'archeologia non ha bisogno di supereroi
Perché considero il film La Chimera un'occasione sprecata
Via 01 distribution
Ho passato buona parte del tempo trascorso a vedere La Chimera di Alice Rorwacher provando una strana sensazione di già visto.
Me la sono portata appresso per tutta la serata e solo il giorno dopo ne sono venuta a capo: la parabola di Arthur, l’improbabile archeologo/rabdomante protagonista del film, è la stessa di Peter Parker.
Pensateci: Arthur ha il dono di trovare le tombe come Spidey quello di lanciare ragnatele, è disperato per la perdita della sua Gwen Stacy, è accudito da Zia May.
Riesce a trovare una Mary Jane e ha un arcinemico che si rivela con tanto di colpo di scena sul finale.
Se La Chimera fosse solo questo ne sarei uscita divertita almeno quanto sono uscita divertita dalla visione de Il primo Re.
Il problema è che esattamente come il film di Matteo Rovere anche La Chimera è stato azzoppato da una campagna pubblicitaria confusa, con una data d’uscita rimandata di continuo, un’uscita in sala inspiegabilmente posticipata di mesi rispetto al concorso a Cannes, il tentativo maldestro di spacciarlo per un film di denuncia quando in realtà Rorwacher ha sistematicamente smussato o omesso qualsiasi elemento potesse comprometterne la distribuzione internazionale, soprattuto negli Stati Uniti, paese con cui l’Italia in tema di restituzioni ha più di un contenzioso
Quando nel 2008 Matteo Garrone realizzò l’impresa che sembrava impossibile di portare al cinema Gomorra di Roberto Saviano, di quel testo prese gli aspetti più politici e costruì una rete di storie capaci di mostrare allo spettatore in maniera inequivocabile quanto la criminalità organizzata ormai fosse capillarmente diffusa e controllasse fette enormi dell’economia del paese.
I personaggi erano immaginari ma le loro azioni no.
Parto da questo punto perché sui social mi è capitato di notare questo fraintendimento: come ho scritto sopra è chiaro che ad Alice Rorwacher non è mai fregato niente di fare un film di denuncia (per quanto però sia stata comunque chiamata a parlare di traffico di reperti nelle università, a proposito di ambiguità), ed è chiaro che conoscendola un poco come autrice nemmeno io mi aspettassi nulla di simile, ma sono dell’idea che quando si sceglie comunque di inserire in una propria opera un tema che può portarci rogne o si accetta di farsi carico di quelle rogne o sarebbe meglio, per decenza, passare oltre.
La dimensione onirica de La Chimera è un paravento dietro cui la regista si nasconde per mettersi al riparo da ogni forma di critica o polemica, rendendo di fatto il film un’arma spuntata o, peggio, un grazioso soprammobile credibile solo agli occhi di chi un’area archeologica l’ha visitata solo da turista.
Partiamo dalla scelta di far cofinanziare il film dalla Svizzera, i cui Porti Franchi sono stati e sono tutt’ora crocevia di traffici illeciti al centro di scandali internazionali: Christopher Nolan ha scelto di mostrare “il più grande museo che nessuno può vedere” in Tenet, Alice Rorwacher ambienta la sequenza dell’asta su un barcone sul lago di Bracciano.
Può essere solo una coincidenza, ma come diceva Andreotti: “A pensar male si fa peccato ma ci si prende sempre”,
E deve essere una coincidenza pure il fatto che Arthur sia un povero disgraziato che agisce al livello più basso della catena alimentare e spinto solo e unicamente da un dolore di natura personale, perché mai e poi mai potremmo insinuare che siano esistiti ed esistano archeologi ed archeologhe che hanno avuto ruoli ben più rilevanti e per motivi molto meno romantici.
È un vero peccato che Oscar White Muscarella sia morto prima dell’uscita del film, sarei stata proprio curiosa di leggere cosa avrebbe avuto da dire a riguardo lui che sottotitolò un suo celebre saggio L’archeologia come Quinta Colonna del traffico internazionale di reperti (potete leggerlo qui).
Ulteriore coincidenza deve essere stata il fatto che i curatori museali che partecipano all’asta siano ignari della reale provenienza della scultura al centro dell’ultimo atto del film, perché in effetti solo uno sceneggiatore con una fervida immaginazione avrebbe potuto immaginare il curatore del Metropolitan Museum di New York vantarsi per i corridoi di aver corrotto finanzieri italiani per far espatriare reperti frutto di scavi clandestini finanziati da lui stesso.
Ad Alice Rorwacher deve essere sembrato decisamente troppo.
E che dire del colpo di scena su Spartaco?
Omaggio alla sorella, non certo scelta dettata dalla necessità di proteggersi da eventuali azioni legali portate avanti dal vero signore, quello che perfino sui pannelli del Museo dell’Arte Salvata viene indicato con le iniziali puntate G.M. (ma qui possiamo dirlo che il vero nome è Giacomo Medici).
Il mio sarcasmo è frutto di un’amarezza che nasce proprio nell constatare che certe cose che scrissi all’epoca della visita al Museo dell’Arte Salvata su quanto sia inefficace una narrazione così infantilizzante, che deve ricorrere sempre alla favola per trattare questo argomento senza rischi è rimasta ancora tutta lì, amplificata dalla visione di questo film che quando non è pavido si aggrappa comunque a luoghi comuni per tratteggiare una carrellata di personaggi irritanti e senza spessore.
Via Wikipedia
Chiudo ricordando che su Prime Video, per chi ce l’ha, è disponibile un film che sicuramente Rorwacher conosce e ha usato come modello e che nonostante sia del 1972 riesce a centrare certe cose come lei non riesce a fare: “Anche se volessi lavorare, che faccio?” di Flavio Mogherini.
Che negli anni Settanta, quando la Grande Razzia era ancora in corso e non esisteva l’ampia letteratura (scientifica e non) di cui disponiamo oggi su tombaroli, curatori corrotti, mercanti d’arte senza scrupoli e chi più ne ha più un regista mettesse in scena lo squilibrio di potere tra tombaroli (che sono poverelli veri e non macchiette dall’allure felliniana) e ricettatori senza scrupoli non solo non era affatto scontato, ma è un’intuizione brillante che ne testimonia la capacità di leggere territorio e contesto.
Oggi lo stornello del tombarolo poverello è francamente inaccettabile, e a salvare La Chimera non bastano citazioni en passant come quella del cratere di Eufronio o dei tombaroli definiti come piccoli ingranaggi (non posso mettere un link perché non è più disponibile, ma è una citazione che viene da un bel saggio dell’antropologo Mirko Luniddi intitolato Etnografia dei tombaroli della Tuscia).
Della dedica finale, personalmente, avrei fatto volentieri a meno, preferendo un po’ più di onestà intellettuale.