Grigio è il colore dell'archeologia
Una riflessione sul ruolo dell'archeologia nel traffico internazionale di reperti
Negli ultimi due numeri di questa newsletter ho analizzato due casi di storie di finzione in cui viene trattato l’argomento traffico internazionale di reperti.
Ora è tempo di tornare alla realtà, ma non prima di aver usato un'ultima volta la finzione come trampolino di lancio per porre una domanda scomoda: sono esistiti (ed esistono tutt’ora) archeologi ed archeologhe che hanno operato “dall’altro lato della barricata”, ovvero sono stati parte attiva di questo sistema? E se sì, a che livello hanno operato, e con quale ruolo?
La risposta alla prima domanda è sì.
La risposta alla seconda invece, è affare più complesso, e ci torneremo con i dovuti distinguo.
Prima partiamo dalle basi.
Il criminologo Simon Mackenzie è stato il primo a inquadrare il traffico internazionale di reperti archeologici come uno dei sei ambiti dei così detti crimini transnazionali.
Gli altri cinque, per capirci, sono droga, armi, esseri umani, animali selvatici e diamanti insanguinati.
Crimini transnazionali vuol dire che si tratta di traffici gestiti da una rete con gerarchie ben precise, un sistema in grado di spostare merci su scala globale.
Se analizziamo il traffico di reperti partendo da questo punto di vista appare ancora più evidente quanto i tombaroli siano ancora di più il livello più basso di questa filiera, i piccoli ingranaggi che innescano a loro volta meccanismi ben più complessi.
Se i tombaroli esistono, infatti, è perché esiste una domanda di reperti archeologici, e non si smetterà di ricordare che prima ancora dei collezionisti privati i primi ad aver bisogno di questa enorme quantità di materiale sono proprio i musei stessi.
Ma non è del vertice che per ora mi interessa parlare.
Sempre Mackenzie, e il gruppo di lavoro che costituiva l'interessante progetto Trafficking Culture, si è occupato di inquadrare il fenomeno dal punto di vista economico all'interno dei così detti grey markets, i mercati grigi, ovvero quei mercati in cui vengono vendute legalmente merci di origine illecita, o comunque prodotte aggirando determinate regole.
E qui veniamo al punto che ci interessa: per arrivare nelle vetrine di un museo o finire nel catalogo di una qualche prestigiosa casa d’asta, i reperti devono essere ripuliti, cioè si deve cucire loro addosso una parvenza di plausibilità circa la loro provenienza.
E questo è un lavoro di cui di certo non si può occupare un intermediario.
Quando nel 2017 ho discusso la mia tesi di Master proprio sul caso di un’archeologa che ha collaborato con i due più importanti trafficanti di reperti italiani, ho aperto il discorso proprio con la seguente domanda: come hanno fatto uomini come Medici e Becchina ad avvicinare e a farsi credere dai curatori dei più importanti musei del mondo?
E qui chiudo questo numero con una terza e più intrigante definizione, quella di Janus Figure: sempre secondo il gruppo di studio di Trafficking Culture le figure chiave del mercato dei beni culturali di provenienza illecita sono gli intermediari, cioè quelle figure di raccordo tra il lato più criminale (tombaroli e capi zona) e la faccia pulita del mercato, ovvero le case d’asta e i curatori museali.
Per Mackenzie e gli altri sono personaggi come Medici e Becchina a rivestire questo ruolo, ma in questi ultimi sette anni, approfondendo un caso di studio di cui spero possiate leggere l’anno prossimo in un volume di cui vi dirò, mi sono convinta che anche alcuni archeologi (e archeologhe) possano rientrarvi a pieno titolo.
Ma sul perché sia un argomento di cui gli archeologi stessi evitano di parlare tornerò nella prossima newsletter, dove vi parlerò di un articolo e una figura a me molto cari.
L’articolo con la nota a pie’ di pagina più esilarante nella quale mi sia mai imbattuta.