Esiste una parola che racchiuda l’essenza stessa dell’archeologia?
Sì, ed è la parola contesto.
Se guardiamo al mondo della cultura popolare l’archeologo viene ancora raffigurato come un cacciatore di oggetti, ma la realtà è che ciò che veramente brama è ricostruire una storia che nessuno è più in grado di ricordare, riportarla in superficie e far tornare voglia alle persone di riascoltarla.
Per raccontare questa storia il singolo oggetto è necessario, certo, ma non è sufficiente, perché il suo ruolo narrativo, il suo valore per la società che lo ha prodotto sta non solo nella sua forma o nella sua decorazione, quanto nel contesto, appunto, in cui viene trovato: una tomba e un’abitazione sono due luoghi molto diversi tra di loro.
L’esempio più famoso che si fa è quello del reperto-simbolo del traffico internazionale di reperti, il cratere di Eufronio: è opera di uno dei più importanti vasai dell’Atene del V sec. a.C., ma è stato scavato clandestinamente in Etruria, fatto che ne accresce il valore già di per sé inestimabile, perché ci conferma in maniera incontrovertibile che gli Etruschi avevano rapporti commerciali con i Greci, e gli artisti greci più importanti esportavano le loro opere molto lontano da Atene.
Una storia quasi più interessante della morte del povero Sarpedonte, il cui cadavere tratteggiato con linee di una grazia inarrivabile viene portato via dagli dei gemelli del sonno e della morte.
Credo di averlo scritto altre volte, e nel caso mi perdonerete l’ennesima ripetizione, ma il vero danno che i tombaroli fanno all’archeologia è proprio quello di strappare gli oggetti al loro contesto, riducendoli a meri elementi decorativi.
La grande difficoltà degli archeologi che si ritrovano a studiarli dopo una restituzione da parte delle forze dell’ordine è proprio quella di capire cosa farne.
E come comunicarli al grande pubblico.
L’allontanamento veloce dei beni archeologici dai luoghi di provenienza, operato da scavatori e ricettatori, priva i beni stessi di quel plusvalore culturale dato dalla loro contestualizzazione. Nella foga della ricerca e dello smercio si smembrano corredi, si reintegrano reperti con azioni arbitrarie, si trattano le superfici dei pezzi con lacche. L’obiettivo, del mercante quanto del collezionista, è infatti l’effetto estetico e non la conservazione dell’autenticità. Nel restauro antiquariale, funzionale al commercio, si perdono gli elementi biologici e chimico-petrografici che ne aiutano l’individuazione del luogo di produzione e di uso. Per i reperti che compaiono nella mostra, lo studio e la ricerca sono stati possibili, nonostante la perdita di questi dati, sulla base dell’iconografia dei soggetti raffigurati, sui caratteri stilistici della decorazione, sulla forma degli oggetti.
Il progetto nasce dalla volontà di preservare al meglio l’eredità culturale che ci è stata affidata dalle generazioni passate al fine di restituire ai reperti esposti, strappati al loro tempo e al loro contesto dagli scavi clandestini, una dignità di ambito di appartenenza. La ricostruzione del contesto di provenienza degli oggetti sottratti al commercio illecito è generalmente un’operazione molto difficoltosa, bisognosa di accurati studi, e le esposizioni che vedono come protagonisti detti reperti devono in genere seguire delle logiche espositive che prescindono dal contesto di scavo.
Ho scelto queste due dichiarazioni, rispettivamente di Margherita Eichberg (Soprintendente Archeologia, Belle Arti e paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale) e di Gemma Carafa Jacobini (Funzionaria Archeologa SABAP-RM-MET), provenienti entrambe da una pubblicazione che mi è stata donata qualche mese fa dal Museo Civico Archeologico di Anzio, la mia città, proprio perché non solo confermano quello che vi ho scritto sopra, ma anche perché lo dicono riferendosi a un esempio concreto, che è quello che andremo ad analizzare in questa newsletter.
La pubblicazione, di cui ho messo la copertina in apertura, è il catalogo di quella che è un po’ più di una mostra dal titolo Conoscere, Preservare, Tutelare. Momenti di vita nell’antichità.
Che vuol dire “un po’ più di una mostra”?
Nel luglio 2020 il Museo Civico Archeologico di Anzio decide di dedicare la Sala VI alla memoria del Generale Roberto Conforti, figura fondamentale della storia del Comando Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri.
In questa occasione il TPC decide di donare al Museo una selezione degli oltre 5000 reperti recuperati nel corso di una delle sue più famose operazioni di recupero. l’operazione Teseo.
Durante la pandemia non ho avuto modo di andare a vedere di persona i vasi, ma la voglia mi è tornata a settembre, mentre scrivevo la newsletter dedicata alla visita al Museo dell’Arte Salvata.
Questa donazione, infatti, costituisce un’ideale prosecuzione di quel discorso, e a sua volta pone due domande a cui mi premeva provare a dare una risposta.
La prima riguarda un discorso puramente narrativo: il Museo Civico Archeologico di Anzio, come tutti i Musei Civici, racconta la storia di un territorio molto specifico,
Il suo compito è quello di connettere gli abitanti di quel territorio al loro passato, cosa che fa anche attraverso l’esposizione di materiale recuperato in mare come la statua in marmo bigio che si trova proprio al centro della Sala VI.
Nella stessa sala sono conservati anche il vero punto di forza del museo, un ciclo di affreschi provenienti dalla così detta “Villa di Nerone”, recuperati anche loro in maniera fortunosa a seguito di un crollo di parte delle strutture negli anni ‘70.
Poi ci sono materiali che provengono da scavi effettuati per la costruzioni di edifici, iscrizioni, ex voto, tutti reperti accorpati sì per tipologie, ma sempre all’interno di un percorso che tenta di restituire un quadro generale di una storia, quella del territorio di Anzio, molto lunga e complessa.
La domanda che mi sono fatta è: “Come inserire reperti privi di contesto in un percorso del genere?”
Domanda a cui è impossibile rispondere senza rispondere prima a un’altra, più generale e anche più complessa: “Esiste un contesto per reperti che sono privi di contesto? E se sì, qual è?”
Perché è questo, secondo me, il nocciolo del discorso.
Come hanno ricordato anche le due funzionarie che ho citato più sopra, lo scopo della filiera del traffico internazionale di reperti è quello di immettere sul mercato oggetti che non destino alcun tipo di sospetto nelle forze dell’ordine: oggetti la cui vendita deve apparire assolutamente regolare, che è poi il motivo per cui in ambito economico questo fenomeno rientra nel più ampio spettro dei così detti grey market, i mercati grigi.
Per fare questo, come spiega bene Eichberg nella citazione che ho riportato, i trafficanti ripuliscono i reperti archeologico di ogni traccia che li colleghi anche solo flebilmente al territorio di appartenenza: si cancellano residui, si effettuano restauri pesantissimi che hanno per lo più lo scopo di mascherare le tracce delle fratture recenti (non so se lo sapete, ma questo tipo di vasi viene venduto per gruppi di frammenti, quindi se anche vengono scavati interi vengono comunque distrutti intenzionalmente e poi riassemblati da restauratori collegati alla rete criminale), i documenti che li accompagnano (ad esempio all’entrata o in uscita dal Porto Franco di Ginevra) vengono compilati mettendo di proposito il minor numero di informazioni possibili sulla provenienza, minimizzando l’importanza di quella geografica.
Alla fine di questo percorso, quando il reperto è pronto per finire nel catalogo di qualche casa d’asta, è di fatto un costoso soprammobile, il cui unico valore è dato solo e soltanto dalla bellezza.
Tutto ciò che è la sua storia, il suo valore anche simbolico per chi lo ha prodotto o lo ha posseduto, la sua funzione, è stato completamente spazzato via.
E, per tornare ai virgolettati di Eichberg e Carafa Jacobini, recuperarlo è praticamente impossibile.
Paradossalmente chi si trova ad analizzare quel genere di reperti dopo un sequestro si trova nelle stesse condizioni di chi li ha venduti: può affidarsi solo all’apparato decorativo per datarli.
Non ricordo più nello specifico chi coniò per loro un termine eloquentissimo, orfani.
Questi reperti sono, dal punto di vista archeologico e volendo usare quel tipo di retorica di cui notoriamente non sono fan ma che in questo caso rende bene l’idea, bambini di cui sarà impossibile rintracciare l’identità dei genitori.
Al massimo si può risalire a una provincia, ma senza alcuna speranza di trovare parenti anche alla lontana.
Fin qui, se per portare avanti il ragionamento ci affidiamo solo all’archeologia.
Ma se la forma mentis dell’archeologo si unisce a quella del criminologo, cioè di colui che studia i fenomeni criminali, ci rendiamo conto che un contesto, in fondo, c’è ed è quello dell’indagine attraverso la quale sono stati recuperati.
E qui scattano nuove domande: cosa è stata l’operazione Teseo?
Perché la donazione fatta al museo di Anzio ha un valore simbolico così elevato?
Ecco, devo dire che se volessi trovare una pecca all’esposizione, punterei proprio su questo: se vogliamo che questi reperti abbiano un loro senso all’interno del percorso del museo, e l’omaggio al lavoro enorme svolto dal Generale Conforti sia più di un nome stampato su una targa, andrebbe valorizzato meglio il racconto dell’Operazione Teseo.
Come ricorda anche il catalogo, tutto nasce con il recupero del Cratere di Assteas, un altro reperto simbolo della lotta al traffico di reperti.
La sua vendita al Getty Museum (definito affettuosamente da chi si occupa di art crime il museo dei tombaroli) era stata curata da un personaggio che tocca definire tramite le sole iniziali G.B.
GB ha una storia interessante: partito come facchino d’albergo, era arrivato a possedere una galleria d’arte in Svizzera.
Sembrerebbe una bella storia di riscatto personale, se non fosse che GB è anche noto per essere stato il tesoriere di un certo Matteo Messina Denaro, personaggio che non ha bisogno di presentazioni.
Ma torniamo alle nostre indagini: il nome di GB suonava familiare alle forze dell’ordine per essere uno di quelli che compariva in uno dei promemoria più famosi della storia giudiziaria italiana (e non solo italiana): quello rinvenuto nella macchina di Pasquale Camera, elemento di primo piano del traffico di reperti, morto in uno schianto mortale in autostrada.
(Avrei potuto mettere la versione manoscritta, ma con questa versione tratta dal libro The Medici Conspiracy, di Watson e Todeschini, potete divertirvi a individuare chi è il nostro GB).
Questo organigramma è tutt’ora l’unica prova certa di come funzioni la filiera del traffico internazionale di reperti, chiamata piramide rovesciata: alla base ci sono i tombaroli, al vertice i venditori che portano dritti dritti ai musei e ai grandi collezionisti. Come per molti fenomeni criminali, se non ci fossero gli acquirenti la filiera verrebbe meno, e invece sono proprio i grandi musei ad alimentarla (più dei collezionisti privati, sì).
Ma ritorniamo a GB: le forze dell’ordine iniziano a setacciare le sue attività, scoprendo l’esistenza di società in Italia e all’estero create allo scopo di eludere i controlli doganali.
Un complesso sistema di specchi che si ritrova anche nella gerarchia di vendita: i reperti più prestigiosi vengono venduti direttamente ai grandi musei; man mano che il valore economico scende, si ricorre ai privati per i quali si creano vere e proprie collezioni fittizie, con tanto di impresentabili finti cataloghi.
La scoperta di queste società permette alla Procura della Repubblica di Roma, guidata da una figura non meno illuminata e fondamentale del Generale Conforti, il magistrato Paolo Giorgio Ferri, di fare la prima richiesta di rogatoria internazionale, a seguito proprio della complessa rete di indagini del TPC.
Un lavoro di squadra che ha fatto scuola, portando al primo processo al mondo a carico di trafficanti di reperti, che a sua volta ha avuto come risultato una sentenza che è una vera e propria pietra miliare.
Ma prima di arrivare al processo, ci sono le perquisizioni: a Basilea vengono trovati e scandagliati cinque magazzini pieni non solo di reperti archeologici, ma anche di documenti, fotografie, bolle di vendita, appunti di vario genere tutt’ora preziosissimi per ottenere (o tentare di ottenere) restituzioni di opere individuate nei musei o anche solo nei cataloghi delle case d’aste.
Ma le identificazioni non sarebbero state possibili senza l’apporto fondamentale dato dagli archeologi che hanno operato come consulenti, grazie al lavoro di perizia dei quali il 10 febbraio 2011 il Giudice dell’Udienza Preliminare del Tribunale di Roma emetteva provvedimento di confisca in quanto “si deve affermare che i reperti dalle autorità elvetiche e sequestrati a suo tempo a Basilea provengono da scavi clandestini compiuti in Italia e sono stati illecitamente esportati in Svizzera da B.”
A febbraio dell’anno successivo, il 2012, la Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso di Becchina e conferma la restituzione allo Stato Italiano di tutti i reperti e di tutta la documentazione sequestrata in Svizzera, nonostante non si sia potuto procedere contro di lui per avvenuta prescrizione.
Dell’importanza del materiale documentario si è già detto; una piccolissima parte dei reperti, e qui il cerchio si chiude, è ora esposta a cinque minuti scarsi dalla stanza da cui vi sto scrivendo.
Vorrei chiudere questa newsletter con una piccola nota riguardante i vasi, la cui provenienza geografica si può collocare soprattutto in Puglia.
I vasi apuli (questo è il nome usato dagli archeologi per questo tipo di reperti) sono una categoria che ha una storia a sé all’interno del traffico di reperti: non molto amati dai musei che, tranne di fronte a lodevoli eccezioni come le opere del così detto Pittore di Dario hanno sempre preferito i vasi attici, hanno fatto la fortuna dei collezionisti privati di tutto il mondo in un’epoca, gli anni ‘80 del Novecento, in cui il mercato cominciava a buttarsi a capofitto sui reperti archeologici, considerati beni-rifugio.
Un archeologo dell’Università di Boston, Ricardo J. Elia, nel 2001 ha pubblicato un’analisi quantitativa dei vasi apuli a figure rosse pubblicati dagli studiosi Trendall e Cambitoglou in un’opera monumentale dal titolo The Red-figured Vases of Apulia.
I due studiosi hanno catalogato in un arco di tempo piuttosto lungo la presenza in musei e collezioni private di questa specifica categoria di reperti. Il succedersi dei complementi consente, quindi, di avere una visione spaziale e temporale molto precisa dell’evolversi e dell’espandersi di questo mercato.
Senza entrare nel dettaglio, Elia ha notato questo: il primo volume della serie di Trendall e Cambitoglou è del 1978: gli oltre novemila vasi censiti lì sono venuti alla luce in un arco di tempo di quasi due secoli.
Gli oltre quattromila vasi censiti nei vari supplementi, invece, sono emersi sul mercato in un arco di tempo di appena dodici anni.
La proporzione è impressionante ed è un’immagine perfetta per avere un’idea realistica della quantità di materiale archeologico uscito dall’Italia senza che nessuno se ne accorgesse (o volesse accorgere, ma questo è un altro discorso).
Se per i vasi senza contesto si usa il termine orfani, in questo caso l’archeologa Marina Mazzei ha usato il termine altrettanto appropriato di emorragia.
È un dato che ho voluto riportare per far capire, nel contesto specifico di questa newsletter, la reale difficoltà di chi si trova a dover trovare un posto, e non solo in senso materiale quanto soprattutto di appartenenza, a questo flusso privato di ogni sua sostanza nutritiva.
Spero che questo pezzo, nel suo piccolo, abbia contribuito a restituire a quei vasi un po’ di sostanza.
Al prossimo numero,
La vostra Archeocriminologa